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QUI POSTULAZIONE #71 - Uno specchio… per compagno di Missione

Nella sua Birmania, che lo ha accolto novello sacerdote nel 1924, Clemente Vismara ha vissuto fino al 15 giugno 1988. È lo stesso giorno in cui se ne celebra la memoria liturgica dopo la sua beatificazione a Milano il 26 giugno 2011.

Tanto se ne sentiva parte da scrivere quando sorsero problemi per il rilascio del passaporto: «Che malinconia! Sono ormai 50 anni che mi trovo in Birmania e questa gente ancora non è persuasa ch’io sia un galantuomo di Agrate, non un sovversivo, ma un uomo di fiducia. C’erano gli inglesi, sono scappati ed io rimasi sul posto. Vennero i cinesi, sono scappati ed io rimasi sul posto. Vennero i siamesi, sono scappati ed io rimasi sul posto. Vennero i giapponesi, sono scappati e io rimasi sul posto. Vennero i birmani, ed io mi trovo ancora sul posto e per quante restrizioni possano fare, non intendo cedere alla mia consegna. Naturalmente io dubito della mia fortezza, ma oggi come oggi desidero morire collo zaino in spalla».

Coerente al suo «Cerchiamo di far sempre del bene: è per questo che siamo al mondo», partendo da zero ha realizzato quanto necessario per la gente di quella terra che ora è il Myanmar: in particolare case per accogliervi i bambini, in gran parte orfani, per i quali si è prodigato sempre col sorriso. Lo ha fatto dal 1955 a Mongping e ancor prima a Mongling, sua destinazione originaria da dove scrisse: «Sono l’unico cristiano nel giro di 100 e più chilometri, il prete più vicino è lontano sei giorni a cavallo. Se voglio vedere un altro battezzato, debbo guardarmi nello specchio».

È stato un sorriso che rasserenava e coinvolgeva il prossimo così come è stata per lui la preghiera che lo ha accompagnato nel suo ministero: dal Rosario recitato assieme ai ragazzi, alle orazioni andando per la foresta. Ma ancor di più la silenziosa adorazione dinanzi al Tabernacolo, la stessa che nel 1937 gli ha fatto appuntare: «Seduto nell’oscurità in fondo alla chiesa. Tutto solingo, ipnotizzato dal lumino che arde a fianco del Padrone della Messe, amo anch’io fermarmi là seduto, quieto, immobile per lungo tempo».

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La Preghiera

Marzo 1937


Come un baco da seta che allunga e dimena il capo in cerca di un ramo ove salire e costruire il proprio bozzolo,
anch’io vado in cerca di una compagnia. Sempre da solo non si sta bene, l’uomo è un essere socievole, la solitudine
(gran bella cosa) può divenire anche inumana e dannosa. […]
Stando così le cose, io il rosario lo dico sempre in compagnia. A sera, verso le sei, un mio orfanello, tira la
campana, tutti gli altri in fila per due entrano in chiesa ed anch’io, come tutti, rispondo alle «Ave Marie» che recita
un ragazzo a turno di settimana. Per sette giorni si recita il rosario in lingua shan, altri sette in lingua mushò e altri
sette in lingua ikò. Se lo recitassi nella lingua di mia madre forse capirei di più, mi sembrerebbe più devoto; ma
preferisco pregare in compagnia e alzo anch’io la mia voce forte per farmi sentire dagli uomini e da Dio.
Ultimo ad entrare in chiesa, è naturale che sia pure l’ultimo ad uscirne. La sera ha sempre come compagna la
stanchezza; è alla sera che si gusta la quiete. Seduto nell’oscurità in fondo alla chiesa, tutto solingo, ipnotizzato dal
lumino che arde a fianco del Padrone della Messe, amo anch’io fermarmi là seduto, quieto, immobile per lungo
tempo. Non mi scocciate. Troppo spesso mi capita (lo confesso sinceramente) di schiacciarvi anche un pisolino
finché qualche mio orfanello, tirandomi per la sottana, mi viene a disturbare: «Padre, non vai a dormire?». «Ma non
vedi che dormo già!».

* * *

Volete pregare, oltre che alla notte, anche tutto giorno? Liberi, liberissimi di farlo nel tempo e nel modo che vi
sembra migliore.
Dicono che il più forte aiuto della preghiera sia il silenzio Volete più bel silenzio di qui? Qui chi parla e capisce
l’italiano (o milanese) sono io solo. In residenza si usano quattro lingue differenti: lo shan, l’ikò, il mushò e qualche
volta l’inglese. Causa la pluralità di lingue, l’eloquenza viene a mancare, e capita anche di non riuscire a farsi
intendere, pur avendo tanto studiato. Qui c’è il silenzio... naturale, sì parla per necessità. Non trovando gente di
ugual casta alla mia, il riserbo, la gravità vengono da sé. […]


* * *

Il tempo più bello e più patetico per pregare, ho detto, è la sera. Forse voi v’immaginavate al mattino quando si
celebra la S. Messa.
Al mattino, sia per il clima e sia per non so quale motivo, si è così balordi e intontiti che per risvegliarsi, almeno
normalmente, ci vuole un bagno turco o delle spugnature bollenti al fil della schiena.
Alla sera, invece, seduto su di uno sgabello là in fondo alla mia chiesetta, tra quelle quattro mura spoglie, si
prega bene. Allora, benché tutto solo, siamo in tre: Dio, la lampada e io.
Che silenzio sepolcrale e divino! Il mio occhio, più che a Dio, si fissa nella lampada e non sa staccarsene. Che
volete che dica? Più che dire si sente!
Che cosa si sente?
Non so, ma si sente…, la tranquillità piena, sicurezza di riuscita, rassegnazione soave e pacata, timore né di
vivere, né di morire. Il dolore e la gioia sono fili uguali che s’intrecciano e si confondono come in una bella trina.
Indifferenza di uomini e di cose. Desideri spenti. I morti diventan vivi e i vivi sono morti ugualmente presenti.
Paura di nulla e di nessuno. Coraggio di proseguire animosi nel cammino sicuro che conduce alla fine. E la fine non
fa spavento, perché, di tutto quanto me stesso, sol mi rimane un corpo stanco, ma vivace. […]

* * *

Altro tempo bello e sentito per la preghiera è in mezzo alla foresta, ancora di sera. I cavalli legati sotto la pianta
vicina con tre o quattro ragazzetti, tutti vicini, come pulcini sotto la chioccia, inginocchiati sulla nuda terra, con le
mani giunte, davanti a un posticcio giaciglio, forse coi piedi feriti, certamente stanchi, noi ci sentiamo tanto piccini
tra quei tronchi di piante secolari la cui chioma s’agita pigra e solenne al vento, con un fruscio misterioso, quasi
insidioso […]
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Clemente Vismara, La perla… sono io, PIME, 1953, pp. 149-151

 

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