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QUI POSTULAZIONE #81 - Manna e il suo “Pontificio”

Il 15 settembre 2002 è stata la prima volta in cui si è celebrata la memoria liturgica di Paolo Manna, sacerdote del PIME beatificato il 4 novembre dell’anno precedente.

Il giorno scelto dall’allora Congregazione delle Cause dei Santi è quello della sua morte, avvenuta a Napoli nel 1952 subito dopo un’operazione chirurgica: aveva ottant’anni, sessantuno dei quali vissuti a servizio dell’Istituto.

Un anelito missionario, il suo, mai affievolito e maturato nei quattro anni trascorsi nell’Istituto da poco fondato da Don Francesco M. Jordan, quello degli attuali Salvatoriani, prima di entrare nel 1891 nel Seminario delle Missioni Estere di Milano. Dopo i sette anni trascorsi nella Birmania – dove era giunto nel 1895 a un anno dall’ordinazione sacerdotale e che dovette lasciare per motivi di salute – in Italia si dedicò infatti alle Missioni con lo studio, la direzione delle riviste dell’Istituto, la pubblicazione di libri ed anche la fondazione dell’Unione Missionaria del Clero.

Direttore del suo Istituto dal 1924, è stato lui a traghettarlo nel PIME, divenendone anche il primo Superiore Generale, quando Pio XI ne volle la creazione unendovi il Pontificio Seminario delle Missioni Estere dei SS. Pietro e Paolo di Roma.

Quel PIME alla cui guida è rimasto per otto anni e del quale ne ha così scritto con affetto ai suoi confratelli nella Lettera Circolare del 15 dicembre 1932: «Il nostro Istituto è fatto di uomini votati così a Dio ed agli interessi della Religione. Che ad un cenno dei superiori tutti indistintamente, sono pronti ad andare e vanno in qualsiasi regione, anche la più remota, inospitale e sconosciuta del mondo, e là, senza nulla chiedere o sperare, tutta la loro esistenza consumano a procurare la salvezza delle anime, che arricchiscono di tutti i tesori di cui N. S. Gesù Cristo li ha fatti depositari […] Grande onore per l’Istituto è il suo titolo di Pontificio. Questa nobile qualità mette l’Istituto e i suoi membri come in una più diretta ed intima unione con la S. Chiesa, di cui dobbiamo propagare il messaggio ed estendere le conquiste; ci pone nella più immediata dipendenza dalla Gerarchia, dalla quale riceviamo le direttive ed eseguiamo gli ordini, quando, giunti in missione, lavoriamo sul campo che ci viene affidato. Le direttive infatti del loro lavoro apostolico, i missionari dell’Istituto, le ricevono immediatamente dai Vescovi, e noi sappiamo come i Superiori regionali non possono occuparsi delle cose che riguardano direttamente il governo e l’amministrazione delle Diocesi, dei Vicariati o Prefetture apostoliche, che sono retti per tutto dai Superiori ecclesiastici.   Missionari nel senso più puro della parola, araldi e propagatori della religione di Gesù Cristo, respiriamo il suo spirito universale, e mai sacrifichiamo  gli interessi della nostra congregazione  quelli generali della Chiesa e delle anime […] L’Istituto non vive dunque in margine della Chiesa, ma si fonda e si perde in Essa per servirne la causa, per consumarsi senza alcuna terrena ricompensa per la gloria di Dio […] All’Istituto dunque, considerato come perfetta società di uomini apostolici, non manca nulla: quello che può ancora mancargli (quello che può mancare del resto anche al più venerando Ordine religioso) è quel tanto che forse manca a ciascuno dei suoi membri in perfezione e santità per vivere degnamente in esso.»  

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