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QUI POSTULAZIONE #79 - Un compleanno particolare con Venticinquino

Padre Clemente Vismara quando il 6 settembre 1949 in Birmania rese grazie al Signore per i suoi cinquantadue anni di vita, venticinque dei quali trascorsi come missionario, da pochi mesi aveva vissuto un altro compleanno: quello del suo Sacerdozio.

Più esattamente aveva festeggiato Il 25° di mia divina investitura, come ricordato nel titolo che diede della relativa memoria pubblicata ne La perla… sono io. Memoria nella quale scrisse: «Perbacco, sembra ieri, eppure sono passati venticinque anni dacchè, sotto la cupola del Duomo di Milano, ricevetti la divina investitura! […]! Ed oggi, sotto un’altra cupola, alta due metri, tutta di paglia, dal cui soffitto annerito dal fumo pen­dono i trofei di caccia; corna di cervo, denti di cinghiale, ma­scelle di daino, code di scoiattolo, ecc... un panorama celeste poco... simpatico. Allora ero tutto a nuovo, ora puzzo di sel­vatico. […] Almeno potessi oggi celebrare la S. Messa!... Ma come si fa? Tutti pagani, ospite d’un pagano. Loro così superstiziosi! La celebrerò, più solenne, al cinquantesimo!».

La mattina di quel venticinquesimo anniversario del 26 maggio 1923 infatti la trascorse col capo e gli anziani di un villaggio, raggiunto il giorno prima dopo un lungo cammino, per impedire inutilmente le seconde nozze di una sua battezzata trentasettenne con un cinquantenne stregone cieco, entrambi vedovi, prima di intraprendere il viaggio di ritorno.

Marcia verso la sua residenza che fece con cinque orfani e il figlio di otto anni di quella vedova, perché gli usi locali proibivano che i figli della prima moglie seguissero la madre. Madre che però desistette dall’idea e raggiunse il missionario dopo aver ripudiato il nuovo marito.

«Ma il regalo l’ho avuto; quest’oggi ho guadagnato un ragazzetto di più, e lo chiamerò “Venticinquino”», annotò al riguardo Padre Vismara nella sua memoria, aggiungendo subito dopo quanto avrebbe fatto di li a poco: già sapeva di dover fare: «Primo affare sarà di fargli un bagno completo, poi lo vestirò, nutrirò ed educherò, perché come da tutti i ragazzi del mondo, a sapersi lavorare attorno, con passione, con costanza, con amore, se ne può ricavare un capolavoro. Sia che viva sia che muoia, la mia opera è immortale! Non omnis moriar».

Il nuovo arrivato sarebbe stato accolto tra i suoi orfanelli assieme ai quali avrebbe recitato «orazioni uguali a quelle che m’insegnò la mamma, ma che, se ella fosse qui, non capirebbe affatto e forse si meraviglierebbe come da bocca umana possono uscire suoni così diversi dall’itala favella».

 

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QUI POSTULAZIONE #78 - Nonostante la pioggia… per l’Assunta

Padre Cesare Mencattini, ucciso due anni dopo mentre si recava in bicicletta per trattare col suo vescovo l’acquisto di un terreno per la missione, nel 1939 partecipò alle celebrazioni per il 15 agosto in uno dei villaggi che aveva in cura. Fu l’occasione per vivere un intenso momento mariano assieme a fedeli giunti anche da lontano noncuranti delle avverse condizioni meteorologiche.

* * *

17 Agosto

Le piogge durarono fino alla vigilia dell’Assunta. Solo verso mezzogiorno l’acqua cessò. Avevo già perso la speranza di par­tire per Tchoang-sin-tchoang, cristianità designata per passarvi la festa. Da Pa-li-ing fin là era tutto un gran lago. Contro ogni speranza, dopo mezzogiorno, vidi arrivare in residenza due gio­vanotti. Erano cristiani di Tchoang-sin-tchoang, venuti a rice­vermi con la barca. Un gran barcone che avevano lasciato due o tre ly lontano da Pa-li-ing. Alle cinque pomeridiane riuscimmo a metterci in viaggio. Si unirono anche alcune cristiane di Pa­li-ing con la suora indigena che dirige la scuola femminile della residenza. Come proibire loro di venire alla festa? Se non le avessero aspettate con la barca, ci dissero che avrebbero fatto tutta la strada a piedi nell’acqua. Per loro si perse tempo e si fece notte di almeno due ore. Fortuna che si viaggiava secondo corrente. Quando, vicino al paese, l’acqua divenne molto bas­sa sì che era impossibile remare, quei due giovanotti scesero nell’acqua e spinsero la barca più che poterono, finché rima­nemmo appena un km lontano dal villaggio.

Percorremmo questo tratto di strada, ora affondando il piede in una profonda fanghiglia ed ora passando a guado delle fosse d’acqua. Quando giungemmo in paese, dovevano esse­re più delle dieci. C’erano ancora delle persone ad aspettar­mi, specialmente i ragazzi che, quando mi videro, sfogarono il loro entusiasmo. Per tutto il giorno avevano temuto che l’acqua impedisse la mia venuta. Allora sarebbe stato perduto tutto il lavoro in cui, per vari giorni, erano stati occupati, pulendo la Cappella ed addobbandola. Fui veramente contento della loro opera. Avevano attaccato perfino drappi di seta.

La festa riuscì bene, con la Messa cantata e la Benedizione Eucaristica nel pomeriggio. Cerimonie, canti, tutto ciò che si poté fare di straordinario, fu eseguito dai ragazzi e dalle ragaz­ze del paese. Non aspettavo la partecipazione dei cristiani dal di fuori. Con tant’acqua che v’era in giro, per essi muoversi di casa, sarebbe stata un’impresa troppo straordinaria. Eppure vi fu chi venne, non badando al pericolo della pioggia ed all’ac­qua che, per lunghi tratti, allagava le strade.

Dopo la festa rimasi là ancora due giorni a godermi le pun­ture delle zanzare. Povero me! Da capo a piedi, dovunque, la­sciarono il segno della loro crudeltà. 

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QUI POSTULAZIONE #77 - Morire in Bangladesh per dispensare aiuti

Quando venne ucciso nella notte tra il 13 e il 14 agosto 1972 nella residenza della Missione di Andharkota era rimasto solo lui, Padre Angelo Maggioni, cinquantacinquenne missionario del Pime di Trezzo sull’Adda in provincia di Milano. I confratelli, su richiesta del vescovo, erano infatti nei villaggi vicini per preparare le comunità locali alla Solennità dell’Assunta.

Allora era alla guida della locale parrocchia intento ad assistere la popolazione all’indomani dell’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan, avvenuta il 16 dicembre 1971 dopo nove mesi di guerra civile, nel corso dei quali era rientrato dall’Italia dove stava trascorrendo un periodo di riposo. «Non posso stare qui, quando laggiù la gente soffre e muore. Il mio posto è là» furono le sue parole prima di lasciare i familiari a Trezzo preoccupati per la guerra in corso ad Andharkota dove risiedeva da venticinque anni.

Ad attirare i ladri, di certo sollecitati dall’assenza dei missionari, i fondi erogati per l’opera assistenziale delle parrocchie, in particolare quelle lungo il confine come la sua e rimasti nell’armadio chiuso a chiave accanto al corpo del missionario colpito all’addome con un colpo d’arma da fuoco che gli trapassò il corpo.

La chiesa parrocchiale di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso, da lui realizzata ad Andharkota, ne conserva tutt’oggi le spoglie mortali dal 16 agosto 1976, il giorno delle esequie presiedute dal suo vescovo di Dinajpur ed alle quali parteciparono anche gli animisti, i mussulmani e gli indù dei quaranta villaggi della sua parrocchia, perché grande era la stima per chi li aveva sempre rispettati ed aiutati. Come quando, considerato che i cattolici erano tutelati dall’autorità pakistana, non esitava a donar loro un crocifisso da tenere al collo e ad insegnargli a tracciare sulla propria persona il segno della croce. Il tutto per avere meno problemi alla frontiera con l’India, attraversata la quale si sarebbero messi in salvo nei campi profughi. 

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QUI POSTULAZIONE #76 - Dal 1850 in Missione grazie a San Francesco

La lunga storia che ha portato alla nascita del Pontificio Istituto Missioni Estere è iniziata il 30 luglio di centosettantacinque anni fa… in terra già francescana.

Esattamente nel Convento di San Francesco a Saronno, allora di proprietà del «Sacerdote Angelo Ramazzotti» che il 1° maggio di quello stesso 1850 aveva scritto all’Arcivescovo di Milano Bartolomeo Carlo Romilli:

«Eccellenza Reverendissima,

secondo il pio pensiero, che io ho già di presenza esposto, e che V. S. si è compiaciuto di lodare e accettare, e che fu lodato e approvato anche dai Vescovi della Provincia, ai quali lo ho comunicato, alcuni Sacerdoti della Diocesi desiderosi di consa­crarsi al bene delle anime ed alla propagazione della fede nelle Missioni estere vorrebbero sotto gli auspici, e nella obbedienza del loro venerato Arcivescovo poter fare i primi passi ad esecu­zione del lodevole progetto.

Ottenuto dunque l’assenso, e la benedizione di V. E. essi si ritirerebbero per adesso nella mia casa di Saronno, e quivi in una vita di ritiro, di orazione, e di studio, il cui regolamento dovrebbe avere esso pure sanzione e forza dall’approvazione di V. E. attenderebbero ad assicurarsi sempre meglio della sublime loro vo­cazione, ed a coltivare quelle disposizioni di scienza e di soda pietà che sono necessarie per secondarla con buon successo.»

Il convento gli era giunto per eredità dal padre, che lo aveva acquistato dal demanio militare francese; vi aveva realizzato un oratorio e l’orfanatrofio dove, nel 1848, accolse i figli dei soldati austriaci costretti a lasciare Milano dopo le storiche Cinque Giornate; e quand’ancora non era stato eletto vescovo di Pavia ma era Oblato Missionario di Rho, lo aveva messo a disposizione per farne la sede del nascente primo istituto missionario italiano, di lì a pochi anni conosciuto come Seminario delle Missioni Estere di Milano.

Un desiderio, questo di Ramazzotti, che si concretizzò col placet inviatogli il successivo 27 luglio dallo stesso Arcivescovo quando egli era già Vescovo di Pavia dal 30 giugno:

«Illustrissimo e Reverendissimo Monsignore e Carissimo Confratello,

secondo i concerti e le intelligenze fatte di presenza, voglia Ella, Monsignore, ritenere da me espressamente autorizzati i R. Sacerdoti Alessandro Mornico, Alessandro Ripamonti, Giovanni Mazzucconi, Paolo Reina, e Carlo Salerio (che mi hanno presentato in proposito la loro petizione) a riunirsi nella casa di V. Sig. Ill.ma e R.ma in Saronno col giorno 30 Luglio corrente per prepararvisi all’opera delle Missioni estere, secondo il piano e regolamento già manifestatomi: ritenuto però che questa riunione avvenga ora in forma privata e provvisoria, conformemente a ciò che io partecipai a questa I. R. Luogotenenza con mia nota 17 Giugno, sino alla definitiva determinazione dell’I. R. Governo.

Parimenti ritenga, Monsignore, anche da me specialmente de­legato alla direzione di cotesto pio convitto il M. R. Sacerdote Don Giuseppe Marinoni ridonato ora felicemente alla mia Diocesi, il quale per le sue esimie qualità di mente e di cuore non può che ispirare la più ampia fiducia, che sia per adempire perfettamente il delicato ufficio connesso al di lui zelo.»

Come fu scritto a ricordo di quel giorno:

«Niuna solennità ebbe luogo allora, e quella prima unione, quell’umile principio di questo nostro Istituto, che per la grazia di Dio già prospera in suo sevizio, fu inaugurato solo dalla preghiera, dalla invocazione dello Spirito datore di doni molteplici, e da una ben sentita consolazione celeste.»

Tra queste mura i Francescani vissero dall’inizio del 1200 e il 1797, quando Napoleone trasformò il convento in caserma. I Missionari, invece, poco più di un anno: a giugno del 1851, grazie all’interessamento dell’Arcivescovo, si trasferirono a Milano presso la Chiesa dedicata a San Calocero. Qui rimasero fino al 1911 quando il Seminario fu trasferito nell’attuale complesso milanese di Via Monte Rosa, in quella che allora era una zona molto più tranquilla per la formazione dei missionari rispetto alla precedente trasformatasi negativamente nel tempo. 

 

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QUI POSTULAZIONE #75 - Ricordando San Alberico Crescitelli

Alberico Crescitelli, presbitero dal 1887, è morto il 21 luglio di centoventicinque anni fa... reo di aver tutelato i diritti della comunità cattolica.

A togliergli la vita, in quel giorno del 1900 nel villaggio di Yentsepien, furono infatti gli uomini del locale rappresentate governativo che il sacerdote aveva denunciato alle autorità: in quanto cristiani li aveva privati dei sussidi alimentari durante la carestia.

Prima lo seviziarono, anche bruciandogli con le candele il corpo denudato; poi lo decapitarono e gli recisero gli arti servendosi di un coltellaccio usato per falciare il grano; infine ne gettarono le parti della salma nel fiume affinché la corrente facesse sparire le prove dell’assassinio. Aveva trentasette anni e da dodici era in Cina.

Vedendo in quella morte l’odium fidei dei carnefici, i suoi confratelli ne avviarono l’iter per la beatificazione dinanzi la Sacra Congregazione dei Riti che la riconobbe come martiriale il 5 marzo 1950.

Beatificato il 18 febbraio dell’anno seguente, è stato canonizzato il 1° ottobre 2000.

Nel 1914, quando già era in corso la Causa per il riconoscimento del martirio, suo fratello Luigi gli dedicò il libro intitolato “Vita del Servo di Dio Padre Alberico Crescitelli del Pontificio Seminario dei SS. AA. Pietro e Paolo di Roma. Missionario Apostolico nello Seen-si meridionale in CINA”.

Dato alle stampe ad Avellino – prossimo ad Altavilla Irpina, città natale di entrambi i Crescitelli – fu l’occasione, grazie a ricordi di famiglia e alla corrispondenza intercorsa, per far conoscere più da vicino il missionario. In modo particolare ai concittadini che ne ricordavano ancora l’aiuto prestato durante la peste prima che partisse per la Cina, e che a lui dedicarono una piazza dopo l’uccisione.

Tra i tanti documenti condivisi, la sua foto da seminarista del 1886 e quella scattata subito dopo la necessaria toilette al suo arrivo in missione due anni dopo, così commentò al fratello: «Non so che effetto vi farà il vedere la mia lunga coda a posticcio: quell’abito tutto largo e lungo di maniche di una foggia affatto nuova nelle nostre parti. Quel poveretto così imbacuccato, aggiustato in quel modo, era proprio il tuo fratello. La cosa era veramente ripugnante, sottomettere la propria testa ad un barbiere cinese, che poi la lascia mezza pelata, lasciarsi così trasformare…. ma omnibus omnia factus sum ut omnes Christus lucrifacerem (mi sono fatto tutto a tutti, per guadagnare tutti in Cristo)». 

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QUI POSTULAZIONE #74 - Morire in bicicletta… affidandosi a Dio

Missionario in Cina dal 1935, Padre Cesare Mencattini è stato ucciso a trentun’anni nel villaggio di Qimen, mentre in bicicletta stava raggiungendo il suo vescovo a Weihui il 12 luglio 1941.

Chi gli sparò squarciandogli il ventre – soldati allo sbando in una Paese in guerra col Giappone – lo terminò a colpi di baionetta e lo seppellì dopo averlo derubato di tutto, anche degli abiti. Fu solo grazie all’interessamento di un ufficiale regolare che il suo corpo potè raggiungere Whehui ricomposto in una bara.

Solo alcuni  mesi prima aveva scritto: «Finisse la guerra! Questo è il sogno, la speranza più grande. Si è troppo stanchi di questa vita così agitata, si è troppo nauseati di vedere tante miserie e tanti corpi straziati. Non si può resistere più a lungo sentendo tanti pianti e tanti lamenti. Così nel nostro vicariato vi sono un buon numero di missionari molto scossi in salute. Io però sono ancora nel numero dei sani».

Un “sano”, Padre Cesare, che in quel conflitto iniziato coll’avanzata dei Giapponesi nel 1937 era anche scampato alla morte per mano dei belligeranti comunisti. «Mi sono incontrato con loro quattro o cinque volte – scrisse in una sua lettera –. La prima volta mi spararono ben tre rivoltellate, senza riuscire a colpire né me né il servo, nonostante i proiettili ci sfiorassero la testa e la schiena! La seconda volta mi portarono via la coppa del calice, la pisside e stracciarono cotta e messale. Una terza volta, al buio, tornando da un'estrema unzione, mi fermarono, spianandomi i fucili dinanzi. Pochi giorni or sono, mi condussero con loro, ma mi rilasciarono subito, senza neppure perquisirmi. Per fortuna non riescono a fermarsi a lungo in un medesimo luogo. Sono combattuti continuamente dai giapponesi e dai soldati del vecchio governo». 

Un “sano” la cui esemplare regola di vita è sempre stata nelle parole rassicuranti rivolte ai suoi genitori appena arrivato in missione: «Qualunque cosa mi accadrà, sono nelle mani del Signore, non si può essere più sicuri di così». 

 

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QUI POSTULAZIONE #73 - Il sacerdote con la stoffa del Fondatore

Il Servo di Dio Silvio Pasquali prima di essere accolto nel Seminario delle Missioni Estere di Milano nel 1896, e partire l’anno seguente per l’India dove è morto a Eluru il 7 luglio 1924, ha fatto parte del Clero cremonese.

Ordinato sacerdote il 17 dicembre 1887 all’età di ventitré anni, tanto nella sua diocesi quanto in terra di missione si è prodigato per il prossimo fondando diverse aggregazione.

Prima tra tutte è stata la Società di Mutuo Soccorso San Giuseppe nel 1889 a Genivolta, nella campagna cremonese, dove due anni prima, novello sacerdote, era giunto come vicario parrocchiale. Costituita da una cinquantina di soci e con un cospicuo capitale sociale ne fu il primo presidente.

Le hanno fatto seguito quelle avviate nella città di Cremona quando ha coadiuvato il parroco di Sant’Agata dal febbraio 1891 all’entrata nel Seminario missionario. Dalla Pia Società degli Adoratori del SS. Sacramento – per dare impulso nella comunità alla celebrazione delle “Quarant’ore” da tempo trascurata – alla banda musicale; dall’associazione di signore dedita alla distribuzione della buona stampa alla Unione cattolica cremonese destinata alla formazione del laicato. Ma ancor di più la Società di mutua carità fra i sacerdoti della diocesi di Cremona – istituita il 1° gennaio 1892 e tutt’oggi operante grazie a parte gran parte del clero diocesano al quale viene assicurato un sussidio nel caso di malattia oltre all’assistenza nella vecchiaia. Solo alcuni mesi prima Leone XIII con la sua enciclica Rerum Novarum aveva promosso l’impegno sociale dei cattolici e dato nuovo impulso proprio alle associazioni mutualistiche.

Tra le aggregazioni indiane è invece da ricordare quella delle Suore Catechiste di Sant’Anna, fondata nel 1914 quando era da dieci anni alla guida della Missione di Mattampalli e temeva che i catechisti che andava formando non gli sarebbero stati sufficienti nel futuro prossimo. Le prime sette di loro presero l’abito religioso il 25 aprile 1918 e lo aiutarono tanto nella catechesi e l’istruzione nei villaggi quanto nella conduzione del Conventino delle piccole vedove, le cui ospiti erano emarginate dalla società che le considerava apportatrici di sventura.

È a questa Congregazione, tutt’oggi presente non solo in India ma anche in Tanzania e Italia, che si deve la Causa di beatificazione e canonizzazione di Padre Silvio Pasquali, già completata nella fase istruttoria colla chiusura del Processo diocesano avvenuta a Eluru il 13 ottobre 2019. 

 

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QUI POSTULAZIONE #72 - Ricordando un inizio

Il 18 giugno 2004 a Crema è stata aperta l’inchiesta diocesana per il Servo di Dio Alfredo Cremonesi, sacerdote del PIME beatificato il 19 ottobre 2019.

A presiederla è stato l’allora vescovo cremasco Angelo Paravisi, alla cui diocesi la Congregazione delle Cause dei Santi aveva trasferito – da quella birmana di Taungngu – la competenza della Causa di beatificazione e canonizzazione del missionario morto a Donoku il 7 febbraio 1953.

Grazie ai documenti raccolti e alle testimonianze escusse – alcune in rogatoria nella stessa Taungngu – è stato possibile preparare la Positio super martyrio, strumento di lavoro nella successiva “Fase romana” dell’iter processuale tenutosi a Roma.

Il tutto dopo il Decreto di validità degli atti del processo diocesano datato 9 febbraio 2007.

 

Preghiera al Beato

Ti rendiamo grazie Dio, nostro Padre,

per averci donato padre Alfredo Cremonesi,

sacerdote missionario e martire.

Per amore del tuo figlio Gesù,

egli ha voluto spendere la sua vita

nell’annuncio del Vangelo alle genti

e nell’amore senza riserve per i fratelli.

Per sua intercessione,

nella potenza dello Spirito Santo,

suscita ancora in tutto il popolo dì Dio

annunciatori forti e miti della parola che salva,

testimoni coraggiosi

della fede che vince il mondo;

e fa’ che possiamo vivere

come discepoli missionari

per diffondere in ogni parte della terra

la gioia del Vangelo.

Beato Alfredo Cremonesi, prega per noi.

Amen.

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QUI POSTULAZIONE #71 - Uno specchio… per compagno di Missione

Nella sua Birmania, che lo ha accolto novello sacerdote nel 1924, Clemente Vismara ha vissuto fino al 15 giugno 1988. È lo stesso giorno in cui se ne celebra la memoria liturgica dopo la sua beatificazione a Milano il 26 giugno 2011.

Tanto se ne sentiva parte da scrivere quando sorsero problemi per il rilascio del passaporto: «Che malinconia! Sono ormai 50 anni che mi trovo in Birmania e questa gente ancora non è persuasa ch’io sia un galantuomo di Agrate, non un sovversivo, ma un uomo di fiducia. C’erano gli inglesi, sono scappati ed io rimasi sul posto. Vennero i cinesi, sono scappati ed io rimasi sul posto. Vennero i siamesi, sono scappati ed io rimasi sul posto. Vennero i giapponesi, sono scappati e io rimasi sul posto. Vennero i birmani, ed io mi trovo ancora sul posto e per quante restrizioni possano fare, non intendo cedere alla mia consegna. Naturalmente io dubito della mia fortezza, ma oggi come oggi desidero morire collo zaino in spalla».

Coerente al suo «Cerchiamo di far sempre del bene: è per questo che siamo al mondo», partendo da zero ha realizzato quanto necessario per la gente di quella terra che ora è il Myanmar: in particolare case per accogliervi i bambini, in gran parte orfani, per i quali si è prodigato sempre col sorriso. Lo ha fatto dal 1955 a Mongping e ancor prima a Mongling, sua destinazione originaria da dove scrisse: «Sono l’unico cristiano nel giro di 100 e più chilometri, il prete più vicino è lontano sei giorni a cavallo. Se voglio vedere un altro battezzato, debbo guardarmi nello specchio».

È stato un sorriso che rasserenava e coinvolgeva il prossimo così come è stata per lui la preghiera che lo ha accompagnato nel suo ministero: dal Rosario recitato assieme ai ragazzi, alle orazioni andando per la foresta. Ma ancor di più la silenziosa adorazione dinanzi al Tabernacolo, la stessa che nel 1937 gli ha fatto appuntare: «Seduto nell’oscurità in fondo alla chiesa. Tutto solingo, ipnotizzato dal lumino che arde a fianco del Padrone della Messe, amo anch’io fermarmi là seduto, quieto, immobile per lungo tempo».

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La Preghiera

Marzo 1937


Come un baco da seta che allunga e dimena il capo in cerca di un ramo ove salire e costruire il proprio bozzolo,
anch’io vado in cerca di una compagnia. Sempre da solo non si sta bene, l’uomo è un essere socievole, la solitudine
(gran bella cosa) può divenire anche inumana e dannosa. […]
Stando così le cose, io il rosario lo dico sempre in compagnia. A sera, verso le sei, un mio orfanello, tira la
campana, tutti gli altri in fila per due entrano in chiesa ed anch’io, come tutti, rispondo alle «Ave Marie» che recita
un ragazzo a turno di settimana. Per sette giorni si recita il rosario in lingua shan, altri sette in lingua mushò e altri
sette in lingua ikò. Se lo recitassi nella lingua di mia madre forse capirei di più, mi sembrerebbe più devoto; ma
preferisco pregare in compagnia e alzo anch’io la mia voce forte per farmi sentire dagli uomini e da Dio.
Ultimo ad entrare in chiesa, è naturale che sia pure l’ultimo ad uscirne. La sera ha sempre come compagna la
stanchezza; è alla sera che si gusta la quiete. Seduto nell’oscurità in fondo alla chiesa, tutto solingo, ipnotizzato dal
lumino che arde a fianco del Padrone della Messe, amo anch’io fermarmi là seduto, quieto, immobile per lungo
tempo. Non mi scocciate. Troppo spesso mi capita (lo confesso sinceramente) di schiacciarvi anche un pisolino
finché qualche mio orfanello, tirandomi per la sottana, mi viene a disturbare: «Padre, non vai a dormire?». «Ma non
vedi che dormo già!».

* * *

Volete pregare, oltre che alla notte, anche tutto giorno? Liberi, liberissimi di farlo nel tempo e nel modo che vi
sembra migliore.
Dicono che il più forte aiuto della preghiera sia il silenzio Volete più bel silenzio di qui? Qui chi parla e capisce
l’italiano (o milanese) sono io solo. In residenza si usano quattro lingue differenti: lo shan, l’ikò, il mushò e qualche
volta l’inglese. Causa la pluralità di lingue, l’eloquenza viene a mancare, e capita anche di non riuscire a farsi
intendere, pur avendo tanto studiato. Qui c’è il silenzio... naturale, sì parla per necessità. Non trovando gente di
ugual casta alla mia, il riserbo, la gravità vengono da sé. […]


* * *

Il tempo più bello e più patetico per pregare, ho detto, è la sera. Forse voi v’immaginavate al mattino quando si
celebra la S. Messa.
Al mattino, sia per il clima e sia per non so quale motivo, si è così balordi e intontiti che per risvegliarsi, almeno
normalmente, ci vuole un bagno turco o delle spugnature bollenti al fil della schiena.
Alla sera, invece, seduto su di uno sgabello là in fondo alla mia chiesetta, tra quelle quattro mura spoglie, si
prega bene. Allora, benché tutto solo, siamo in tre: Dio, la lampada e io.
Che silenzio sepolcrale e divino! Il mio occhio, più che a Dio, si fissa nella lampada e non sa staccarsene. Che
volete che dica? Più che dire si sente!
Che cosa si sente?
Non so, ma si sente…, la tranquillità piena, sicurezza di riuscita, rassegnazione soave e pacata, timore né di
vivere, né di morire. Il dolore e la gioia sono fili uguali che s’intrecciano e si confondono come in una bella trina.
Indifferenza di uomini e di cose. Desideri spenti. I morti diventan vivi e i vivi sono morti ugualmente presenti.
Paura di nulla e di nessuno. Coraggio di proseguire animosi nel cammino sicuro che conduce alla fine. E la fine non
fa spavento, perché, di tutto quanto me stesso, sol mi rimane un corpo stanco, ma vivace. […]

* * *

Altro tempo bello e sentito per la preghiera è in mezzo alla foresta, ancora di sera. I cavalli legati sotto la pianta
vicina con tre o quattro ragazzetti, tutti vicini, come pulcini sotto la chioccia, inginocchiati sulla nuda terra, con le
mani giunte, davanti a un posticcio giaciglio, forse coi piedi feriti, certamente stanchi, noi ci sentiamo tanto piccini
tra quei tronchi di piante secolari la cui chioma s’agita pigra e solenne al vento, con un fruscio misterioso, quasi
insidioso […]
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Clemente Vismara, La perla… sono io, PIME, 1953, pp. 149-151

 

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QUI POSTULAZIONE #70 - Il Mese di Maria. Meditazioni quotidiane

Il Mese di Maria. Meditazioni quotidiane

Il Mese di Maria. Meditazioni quotidiane è il titolo del fascicolo che la Postulazione Generale del Pime ha dato alle stampe in occasione del mese mariano appena trascorso.

Le copie, stampate in tiratura limitata, sono state destinate principalmente alle Case dell’Istituto con chiese pubbliche. Il desiderio è stato quello di dare ai fedeli la possibilità di conoscere la spiritualità mariana del Beato.

Di questa pubblicazione – dalla quale sono stati tratti i testi inviati quotidianamente tramite Qui Postulazione – abbiamo anche realizzato la versione digitale.

È quella che con piacere vi condividiamo.

Dalla Postulazione

Massimo Casaro e Paolo Labate

ALLEGATO

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